Il commento di Vittorio Bersezio

Il bel primo giorno di quaresima si fece alla Compagnia la lettura della commedia, e poi per trenta e più giorni, con pochi riposi trammezzo, la si venne provando, nei particolari prima, poi nell’insieme, scena per scena, atto per atto, finché il direttore non fu persuaso che tutti e ciascuno erano padroni della loro parte e sapevano a menadito, fino al menomo gesto, quello che aveva da fare. Una settimana prima della Pasqua, Toselli dichiarò che la commedia era matura: quegli ultimi giorni lasciò riposare la Compagnia; rifece una gran prova il venerdì santo, e la sera del sabato si andò in scena. Le parti erano così distribuite: Monsù Travèt, Toselli; Madama Travèt, Moro-Lin; Marianin, Morino la più giovane; Brigida, Morino la maggiore; Carlin Travèt, Clara Toselli; ’L Comendator, Ferrero; ’L Cap-Session, Milone; Giachëtta, Penna; Paolin, Vado; I due impiegati, Cavalli e Alessio.
L’aspettazione era grandissima. Il fatto che Toselli aveva rinunziato a recitare tutta una stagione, e una stagione delle migliori per le Compagnie drammatiche com’é quella della quaresima per darsi allo studio di una sola commedia, aveva suscitato la curiosità. L’argomento, conosciuto per quanto gli attori s’eran lasciato sfuggir di bocca, interessava una parte notevole della cittadinanza, e quelli che n’erano affatto all’infuori non potevano persuadersi che una cosa noiosa e pesante come la burocrazia potesse farsi mezzo di divertimento.
Le indiscrezioni poi degli attori erano state nocive per questo che, colla severa proibizione di rivelare i particolari, essi, gli attori, non avevano detto che mezze parole, ma tali da far credere che tutta la commedia era una diatriba contro i pubblici funzionari e che c’era uno fra quelli più elevati in grado il quale ci faceva una gran brutta figura. Questo aveva sollevato lo sdegno di tutta quella falange, dall’alto al basso, di ufficiali dello Stato, che numerosissima trovavasi in Torino, allora capitale. Ma le ciarle poco prudenti di alcuni fra i comici avevano pregiudicato il successo anche sotto il rispetto del merito artistico: seccati da quel mese di continue prove che la scrupolosa esigenza del Toselli rendeva faticose, avevano finito per prendere in uggia e la loro parte e la produzione, così che alle insistenti interrogazioni sul valore dell’opera rispondevano, crollando le spalle: «Eh! lunga, eterna, che non finisce mai!» La qual cosa rallegrava l’anima di quei cari amici che quando un nuovo lavoro teatrale precipita si trovano come a nozze. Quella prima sera il teatro era pieno, ma non pienissimo; la borghesia e il popolo di Torino allora non avendo l’abitudine di andare a teatro la vigilia di Pasqua. C’erano, si tutti gl’interessati, accorsi come buoni soldati alla battaglia, gl’impiegati, che avevano avuto la caritatevole precauzione di mettersi una chiave bucata in tasca, e quei certi amici, pregustanti la voluttà di una caduta, sotto le seccanti lungaggini rivelate. Non assistei alla recita. Ebbi raramente il coraggio di affrontare il supplizio di parecchie ore di tortura, supplizio che non è compensato nemmeno dalla gioia del migliore dei successi. Tanto meno l’ebbi quella volta, in cui sentivo che si sarebbe combattuta la più importante battaglia artistica della mia vita; ma ci fu mio fratello che mi riferì con iscrupolosa esattezza ogni cosa. Fin dal principio si avvertiva in teatro un elemento ostile, che con istrategica abilità s’era accampato nelle varie parti, platea e gallerie. Tuttavia il primo atto piacque senza contrasti; al secondo cominciò l’assalto nemico: la figura del capo-sezione, che in seguito doveva riuscire delle più gradite al pubblico, fu male accolta e le sue scene accompagnate da crescente borbottio; il finale si chiuse in un silenzio poco benevolo; accoglienza favorevole ebbe di nuovo il terzo atto, che terminò con sinceri applausi; nel quarto si rinfocolò la battaglia, ma l’ultima scena, fatta stupendamente dal Toselli, ebbe il pregio della vittoria; caddero invece affatto le sorti dell’ultimo atto, in verità troppo lungo e prolisso, e verso il fine le chiavi bucate fecero le loro prodezze e le grida di “basta” poterono strozzare la produzione, a cui pure mancava poco per giungere alla meta. Con tutto ciò mio fratello era persuaso d’una sollecita e buona rivincita; egli aveva udito spettatori imparziali condannare sdegnosamente quei rumori e quei fischi, ridere di gusto alle superbe buaggini del capo-sezione e intenerirsi alle disgrazie di quel povero vecchio lavoratore che aveva sempre fatto con zelo il suo dovere, ed era vittima della bestialità superba d’un intigrante; insomma tanto disse che mi fece rinascere in cuore una lusinghiera speranza. E con questa, nel pomeriggio del giorno seguente, andai a trovare a casa sua il Toselli; gli trovai una faccia da diplomatico, che mi agghiacciò il sangue; visto che non cominciava lui il discorso che più mi premeva, lo interpellai: -Ebbene, ieri sera? Allora egli prese la faccia d’un uomo che si decide, e con quella franchezza che talvolta era rude, mi disse queste precise parole: – Caro mio, ci siamo sbagliati. Così la commedia non va. Quel Giacchetta è impossibile; Paolino è troppo grullo; Brigida troppo insolente; Barbaròt, che si caccia da per tutto senza ragione, diventa seccante, e Travèt stesso è troppo imbecille… Chinai la faccia mortificato, e risposi solamente: -Peccato che tu non te ne sia accorto per tempo! E me ne andai. Ma la sera mio fratello ebbe ragione e io fui compensato colla più bella rivincita che potessi desiderare. Si disse che per tre sere di seguito il Travèt fu fischiato. Nulla di più falso. La sera di Pasqua il teatro era affollato di quel pubblico festivo, che va allo spettacolo senza preconcetti, per divertirsi, e che se si diverte applaudisce, se s’annoia fischia, non curandosi né di chi sia l’autore né delle intenzioni che esso abbia avuto. Quel buon pubblico dovette divertirsi molto, perché applaudì moltissimo, e la chiusa dell’atto quarto suscitò un vero entusiasmo. Da quella sera la fortunata commedia incominciò la carriera di felici successi e di approvazioni sìa della stampa che del pubblico, che né io, né il Toselli medesimo, nei primi entusiasmi, avremmo pure osato immaginare. Gran parte del successo fu dovuto certamente alla eccellenza della esecuzione. Il Toselli, che tanto tempo e tante cure aveva impiegato nello studiare e fare studiare alla Compagnia la commedia, riavutosi subito al successo della seconda sera dallo scoraggiamento che gli aveva prodotto il mal esito della prima, seguitò a mettere in quella parte tutto il meglio del suo ingegno, migliorando sempre, aggiungendo sempre nuove tinte, nuove linee a quel colorito, a quel disegno, che vi davano non più una immagine, ma una persona reale, abbellita dalla luce dell’arte. Fra quanti sostennero quel personaggio, nessuno giunse ad uguagliare il Toselli, nessuno incarnò con tanta evidenza, con sì giusto indovinamento l’essere fantastico che per tanti giorni aveva occupato la mente dell’autore.

LE MISERIE ‘D MONSÙ TRAVET

Un intervento nel segmento culturale ha riguardato il recupero del testo originale e l’inquadramento storico della commedia “Le miserie ‘d Monsù Travet” nell’allestimento realizzato dalla Compagnia di Mario Brusa, su finanziamento della Regione Piemonte, in occasione del 140° anniversario del debutto: il documentario di inquadramento, da visionarsi prima dell’inizio della rappresentazione, racconta la storia piemontese dalla proclamazione dello Statuto al trasferimento della capitale.

Il video della commedia con il libretto del testo in piemontese è disponibile a richiesta presso la Segreteria della Fondazione.

IL CANTO DEGLI ITALIANI

Ovvero come nacque a Torino nel 1847 il nostro inno nazionale

Con il titolo Il canto degli italiani il poeta Goffredo Mameli diffuse tra i patrioti della nascente Italia l’ode scritta da lui nel 1847, il Fratelli d’Italia posto in musica a Torino dal genovese Michele Novaro. Testimone d’eccezione della nascita dell’inno italiano, il poliedrico scrittore Vittorio Bersezio, fautore dell’Italia unita al di là di ogni tentazione campanilista, di ogni ambizione regionale, descrive con vivacità e partecipazione il periodo risorgimentale torinese ed in particolare la prima esecuzione pubblica del carme ad opera di Novaro: “C’è nello svolgersi della tua melodia, o sacro inno, un non so quale misterioso incanto, che ci penetra, che ci fa scorrere per le membra un brivido soave e potente, che ne innalza lo spirito a più sereni cieli, che ci fa capaci di comprendere e di compiere le gesta degli eroi.” La Fondazione Vittorio Bersezio ha sostenuto con entusiasmo la diffusione della conoscenza, sponsorizzando la realizzazione di un CD musicale per offrire al pubblico una rassegna del repertorio musicale del Risorgimento italiano, del quale è stato possibile ritrovare lo spirito originale non solo attraverso la ricostruzione della vasta produzione di Michele Novaro, ma anche grazie al recupero di alcune opere musicali coeve al maestro ed ispirate ai temi patriottici.

Ha inoltre recentemente co-prodotto un filmato storico-musicale sullo stesso tema.

Il CD musicale e il DVD del filmato sono disponibili a richiesta presso la Segreteria della Fondazione.

ALTRE ATTIVITA’

In collaborazione con il Museo Nazionale del Risorgimento Italiano di Torino, la Fondazione ha realizzato una animazione – Voci e Volti dal Parlamento Subalpinodi alcune importanti sedute del Parlamento, luogo che vide attivo Vittorio Bersezio nella sua veste di deputato del Regno. Il DVD è disponibile a richiesta presso la Segreteria della Fondazione.

 

Sono stati pubblicati gli atti del convegno – Cattolici dal Risorgimento alla Repubblica 1861 – 2011, svoltosi nel mese di marzo 2011 e promosso dalla Fondazione Donat Cattin di Torino nell’ambito delle celebrazioni per il 150° anniversario dell’Unità nazionale.

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Tue ‒ Thu: 09am ‒ 07pm
Fri ‒ Mon: 09am ‒ 05pm

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